Un debito da pagare

Si parla sempre di riforma della scuola primaria, e questo mi fa tornare in mente la mia maestra.

Ovviamente ho fatto le scuole elementari con il maestro unico. Anzi: LA MAESTRA! Classe rigorosamente tutta femminile (portoni di ingresso separati per maschi e femmine!), grembiule e tutto il resto.
Scuola elementare Edmondo De Amicis, di Forlì: esattamente quella riportata nella foto. 
Il 1° ottobre 1964 io non avevo ancora 6 anni, lei ne aveva 60 compiuti. Sono arrivata a scuola da sola: mia madre era morta alcuni anni prima e nessuno aveva tempo di accompagnarmi. Mi sono ritrovata con una trentina di bambine accompagnate dalla mamma e la MAESTRA. La conoscevo già, era stata la maestra di mia sorella e conosceva bene mio padre. La detestavo, e l'ho detestata fino all'ultimo. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse la psicologia, non le importava assolutamente nulla dei nostri grandi o piccoli problemi. Niente era più lontano da lei del concetto di trauma infantile: volavano dei ceffoni che farebbero invidia a Bud Spenser!
Però devo pagare un debito.
  • Facendoci ascoltare la radio ci ha insegnato a prendere appunti selezionando rapidamente le cose importanti.
  • Ci ha torturato con i riassunti da fare. Leggeva un testo e stabiliva, di volta in volta, se il riassunto doveva essere di 300 - 500 o 1000 parole o se doveva semplicemente contenere gli elementi essenziali.
  • Ci ha insegnato la scrittura creativa. A volte dettava le prime due righe di un racconto e dovevamo andare avanti inventando una storia, altre volte dovevamo inventare un finale alternativo e altre ancora immaginare cosa succedeva dopo la fine della storia.
  • Ho pochi e vaghi ricordi delle materie scientifiche, ma le tabelline sono una certezza assoluta e credo che potrei rispondere anche dormendo: ci faceva fare le gare per chi rispondeva più rapidamente o correttamente ad un maggior numero di quesiti.
L'idea del team working le era più lontano della più lontana galassia: non ci ha mai permesso di lavorare in gruppo e il suo concetto di collaborazione si esprimeva nell'esercizio saltuario delle più brave che aiutavano le meno brave per un qualche compito. Ricordo che detestavo sia il ruolo di brava che quello di somara! Però è servito anche questo: mi ha fatto sentire in misura talmente forte il bisogno di scambio culturale e collaborazione che mi trovo a mio agio quasi in qualunque gruppo di lavoro.

Creava competizione tra noi per qualunque cosa.
Avevamo i quaderni ricoperti di carta velina, con un colore diverso per ogni materia. Tra questi c'era il famigerato "Quadernino d'oro" che raccoglieva una sorta di diario. Ad esso si abbinava la "scalata della buona volontà", un tabellone che segnava il numero e la qualità dei temi fatti (un tema mal fatto faceva perdere punti) e alla fine di ogni trimestre le 3 più brave venivano premiate.
Poi avevamo il sistema di bollini: per ogni capacità innata o appresa ci veniva consegnato il relativo bollino (un piccolo francobollo con un disegno). Ce n'era uno per saper leggere, uno per lo scrivere, ovviamente uno per le tabelline e uno per le 4 operazioni matematiche. Ma poi c'era il delirio: bollino per il canto, per il cucito, per la recitazione delle poesie, ... Non ricordo quanti erano: io non ho mai completato la serie!
Era un incubo. Ma quando poi mi sono trovata nella competizione lavorativa non mi sono stupita (né fatta coinvolgere più di tanto, ad essere sincera).
  • Le scuole iniziavano il 1° ottobre. Nel dicembre del 1964, stavo per compiere i 6 anni, venni convocata dalla maestra in presenza di mio padre per ricevere un memorabile cazziatone perché non avevo ancora imparato completamente a leggere e scrivere. E fino a fine febbraio, quando fu decretato ufficialmente che sapevo fare, fui tenuta sotto pressione.
Credete poi che mi sia stupita o spaventata dei tempi di lavoro troppo rapidi o delle pressioni fatte dai miei vari capi? 
In conclusione: a oltre 40 anni di distanza devo ammettere che, per quanto poco umana, non mi ha poi causato dei traumi drammatici, e mi ha invece fornito di un bagaglio tecnico impagabile.
E adesso che ho pagato il mio debito posso riaffermare che era detestabile!
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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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Spesso a diagnosi di malattia grave fa scattare l’inizio di percorso di gestione dell’esperienza, di un viaggio dell’eroe. Portare a termina il nostro viaggio, iniziato con la diagnosi, fa vincere un premio molto speciale.
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