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Ribaltiamo i modelli mentali L’esame di coscienza

Oggi andiamo a riflettere sull’esame di coscienza, cambiando un po’ prospettiva rispetto a tante abitudini di pensiero e di comportamento.

Il concetto di esame di coscienza, da noi, è rigorosamente legato alla pratica religiosa della confessione. Si fa un esame di coscienza, si identificano i peccati, ci si confessa … ed è tutto finito.

Io, personalmente, concordo in pieno con il primo passo: fare l’esame di coscienza.

Sui passi successivi vorrei … ribaltare i modelli mentali, o almeno allargare la visuale.


E andiamo con ordine.

  • Identificare i peccati. Qui siamo noi umani che, per abitudine o comodità, abbiamo ristretto parecchio il campo rispetto a quello che indicava la religione. Infatti nell’identificare i peccati cerchiamo le colpe, le cattiverie, gli errori, ma si pecca, secondo il catechismo, per parole, opere e omissioni …

Forse più che fustigarsi sentendosi i colpevoli può servire cercare cosa ci ha indotto, quali sono state le cause o i fattori scatenanti dell’errore, per effettuare cambiamenti in noi in modo da non ripeterli. Forse dovremmo concentraci un po’ di più sulle omissioni: quante volte avremmo potuto fare qualcosa ed è subentrata la pigrizia, l’egoismo …

E poi, e questa è una cosa che ripeto spesso, già che ci mettiamo a disturbare la coscienza o, detto in altro modo, a cercare consapevolezza di sé, perché non cercare le azioni positive? È ampiamente dimostrato che rafforzare il positivo funziona molto meglio che punire il negativo. Forse se in un esame di coscienza cercassimo le azioni di cui andiamo fieri, saremmo più propensi a ripeterle con maggiore frequenza.

  • Ci si confessa. Questa è una scelta, individuale, e la rispetto qualunque sia.

Nel descrivere i passaggi, poco fa, sono stata imprecisa perché in realtà non è tutto finito subito dopo la confessione: bisogna pentirsi e fare la penitenza, in linea di massima recitare qualche preghiera.

Onestamente molti (io per prima) più che di pentirsi per i propri peccati hanno bisogno di perdonarsi per gli errori fatti. La sfumatura è apparentemente minima, ma la differenza è enorme. Il pentimento può diventare un’ossessione, una colpevolizzazione di se stessi, un grande blocco all’evoluzione, e scatenare un enorme desiderio di fuga. Qualcuno, che abbia una coscienza, riesce a frequentare con tranquillità un amico a cui ha fatto un torto solo perché si è pentito della propria azione? Credo ben pochi. Bisogna ottenere il perdono, da chi ha subito il torto e da se stessi.

E poi perché non trasformare la penitenza in un’azione pratica che aiuti a correggersi definitivamente o a rimediare all’errore? Credo nel potere della preghiera, indipendentemente dal Dio a cui è rivolta, ma credo anche che dopo tutto lo sforzo fatto valga la pena attivare un’azione concreta per migliorare noi stessi e il mondo in cui viviamo.

E voi, cosa pensate?

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