Ribaltare i modelli mentali - Quando hanno ribaltato i miei
Anche i miei modelli mentali, le mie convinzioni, sono state ribaltate, ovviamente. Ti racconto come e quando.

Promemoria
 
 Ribaltiamo! per cambiare prospettiva, 
guardare il mondo nelle sue sfumature, uscire dalle barriere del bianco-nero, giusto-sbagliato e da tutte le dicotomie che ci limitano. 
 
 L’antefatto
 
 Vengo da una famiglia di donne forti, volitive, e molti degli aneddoti di famiglia, tramandati generazione dopo generazione, riguardano la forza delle donne. Non ho quasi conosciuto mia madre, morta quando ero troppo piccola, ma ne ho vissuto gli insegnamenti di donna libera, con un lavoro di responsabilità, e non certo sottomessa a mio padre. Non sono definibile “una femminista arrabbiata”, ma femminista sì, profondamente convinta e pronta a dar battaglia per la parità di genere e per i diritti della donna.
 
 Il primo ribaltamento
 
 Amo viaggiare, viaggiare davvero, a contatto con il Paese che visito e spesso fuori dalle rotte turistiche tradizionali. E allora… cosa c’è di meglio di un mese in Malawi, visitando un Paese ricchissimo di parchi naturali che, almeno quando sono andata io la prima volta, erano davvero incontaminati.
 
 Atterriamo in Malawi pronti per l’avventura. Venticinque giorni di viaggio in autobus a noleggio, solo per noi, e moltissime notti in campeggio.
 
 E incontriamo Doc, il nostro autista. Età indefinibile, per noi, come possono esserlo solo persone fisicamente diverse da noi e con una vita completamente diversa da quella a cui siamo abituati. Pensiamo che Doc sia un soprannome, o un diminutivo del nome, e solo dopo qualche giorno di viaggio scopro che è il suo nome di battesimo (sì, è battezzato, di religione protestante) dato in onore del fatto che i suoi genitori non riuscivano ad avere figli, ma l’incontro con un medico occidentale, missionario, ha portato ad una diagnosi, una cura e poi la nascita di due figli, lui, Doc, è il primogenito, poi c’è una sorella.
Di giorno Doc guida l’autobus. Di notte divide con noi la cena, il fuoco e il cielo stellato. Io, curiosa come un gatto, comincio a coinvolgerlo chiedendo di raccontarci le favole della sua gente. 
A poco a poco, giorno dopo giorno, diventa quasi un amico. Da molte sue parole traspare un profondo amore per la moglie e, man mano che passano i giorni, anche un pizzico di nostalgia. E un giorno mi dice: mia moglie è una donna forte, come te. Mi piacerebbe farvi incontrare quando torniamo a Lilongwe. 
 Capisco che è il più grande complimento che potesse farmi 
e, ovviamente, ho conosciuto la signora al ritorno in città.
 
 Così trovo il coraggio di chiedere quando ha conosciuto sua moglie, curiosa di saperne di più dei rituali di un Paese dove ci sono diverse etnie e dove c’è persino una regione in cui vige il matriarcato. Chiedo, non sospettando che avrei avuto una specie di shock culturale, e il più clamoroso ribaltamento dei mie modelli mentali.
Mi racconta di aver conosciuto la moglie diversi anni prima, e di essersi innamorato immediatamente. E aggiunge: Ma costava 
troppo, quindi ho dovuto risparmiare due anni per poterla comprare. Per fortuna ha deciso di aspettarmi: aveva altre proposte che ha rifiutato.
 
 No, non sto inventando o sbagliando la traduzione dall’inglese, che Doc parlava benissimo e che anch’io, all’epoca, sapevo piuttosto bene. Ha parlato proprio di comprare 
la moglie ad un prezzo ben definito. Fortunatamente la penombra di una chiacchierata intorno ad un falò nascondeva il mio sguardo attonito.
 
 Mi ha spiegato che il prezzo della moglie era alto perché non era né vergine, né troppo giovane e perché aveva giù due figli, quindi la fertilità era dimostrata, e mi ha spiegato che il prezzo definiva il valore di una donna come moglie, forte, fertile, e anche del marito, che doveva essere in grado di pagare. Niente a che vedere con donne oggetto o sottomesse: una donna che costava tanto era pienamente cosciente del proprio valore e non si sarebbe mai sottomessa. 
E poi era lei che aveva voce in capitolo, lei che decideva di accettare l’offerta di acquisto del futuro marito. La famiglia poteva solo suggerire. 
 
 Nei giorni successivi Doc ha continuato a raccontarmi della sua famiglia, e a sconvolgermi. La sorella è infermiera diplomata. Si tratta di un titolo di studio difficile da conquistare ed estremamente importante in un Paese che, allora, aveva un numero molto esiguo di medici: salvo eccezioni, la salute era affidata agli infermieri.
Ormai lanciata, ho chiesto perché la sorella avesse studiato e lui no, aspettandomi risposte del tipo “non volevo studiare” o simili facezie che giustificassero perché in un Paese del terzo mondo (e il Malawi era davvero terzo mondo, se non quarto) non fosse il maschio primogenito quello con il diritto allo studio. Già sapevo, girellando per le campagne, che la scolarizzazione era universale e molto diffusa, nonostante l’età media molto bassa e alle bambine fosse chiesto di badare ai fratellini e spesso anche alla casa. Ovunque i bambini sapevano almeno un po’ di inglese e ovunque chiedevano agli stranieri penne e quaderni: mai denaro.
 
 E, ancora, la risposta mi sconvolse: aveva studiato la sorella minore, e non lui, perché non c’erano abbastanza soldi per far studiare entrambe (c’era poco più di un anno di differenza tra i due) e la sorella era decisamente più brava. 
Non aver potuto studiare era il suo rimpianto, ma trovava giusto che fosse stata data l’opportunità alla sorella che lo meritava di più.
 
 Mi ci è voluto un po’ di tempo per digerire questo strano miscuglio tra parità di genere, meritocrazia applicata e acquisto della moglie. 
So che ciò che mi ha raccontato Doc era la sua esperienza: non so se fosse la realtà di tutto il Paese, e non posso certo valutare una cultura dal racconto di una persona, ma so che tutto questo mi è servito, tanto, per non giudicare prima di conoscere e ascoltare. 
 
 E qualche anno dopo ho avuto una splendida lezione di marketing in Mozambico, da un ragazzino di 12 anni. Guarda il video per scoprire come

Quando si parla di rinnovare la scuola, soprattutto la scuola dell’obbligo, sento che alla base c’è un grande equivoco, un enorme fraintendimento che vanifica qualunque buona intenzione.                                                      Lo so:                         non ho alcun titolo per fare questa affermazione.                                              E infatti il mio non è un giudizio, ma una riflessione, che pure sento condivisa da tanti insegnanti sicuramente volonterosi e scrupolosi, e dubbiosi sul loro futuro e su quello dei loro studenti.                                                                   Come dice Snoopy “                                                                  educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco                                                                ”. Ci sono altre frasi, altri dotti autori, che nel tempo hanno affermato lo stesso concetto: mi piace riprendere le parole di Snoopy perché hanno tutta la saggezza dei nostri bambini.                                                                  I politici, deputati a fare la riforma scolastica o almeno a prendersi cura della scuola, continuano ad affermare che                         la scuola deve preparare al mondo del lavoro, deve formare i ragazzi per il futuro.                                                                                             L’equivoco è proprio qui.                                                  È vero che la scuola deve preparare i ragazzi, è vero che la scuola può e dovrebbe fornire tecniche, strumenti, mezzi per il futuro e per il mondo del lavoro.                                                                                             Ma pensiamo un attimo alla differenza del mondo del lavoro tra quando andavamo noi a scuola e quando poi siamo andati a lavorare, o alla differenza della società tra quando abbiamo iniziato a lavorare e oggi.                                                                               C’è un abisso!                                                      Ci sono differenze enormi.                                  E l’accelerazione ai cambiamenti a cui assistiamo fanno pensare che tra oggi e il 2030, 2040, quando andranno (speriamo) a lavorare i ragazzi che oggi sono alle scuole elementari le differenze saranno davvero impensabili.                                                                   Come possiamo preparare i bambini ad un futuro che ci è totalmente ignoto, ad un mondo del lavoro che non conosciamo?                        Le differenze tra l’oggi e i successivi 15-20 anni erano molto meno marcate 30 o 50 anni fa.                                                      Non possiamo preparare gli studenti di oggi al mondo del lavoro del futuro, semplicemente perché non sappiamo quale sarà il mondo del lavoro in futuro.                                                                   Quello che possiamo (e, credo, dobbiamo fare) è mettere gli studenti di oggi in condizione di costruirsi il futuro, di affrontare al meglio il mondo del lavoro e la loro vita futura.                        Dobbiamo fornire le basi affinché abbiano voglia di impegnarsi per creare un futuro e una società migliore, migliore anche di quella che gli stiamo mostrando oggi.                                                                                 Oggi, più che mai, dobbiamo trasmettere un fuoco di cultura vera, creativa, gioiosa.                                                  Se per farlo è necessario aumentare le tecnologie a scuola (ed è necessario) gli insegnanti dovranno impegnarsi per apprenderle e usarle. Ma ricordando che                                                   la tecnologia è un mezzo, non un fine                                                  .                                                                                             La scuola non prepara                                        al                                        futuro:                                                                               la scuola prepara                                           il                                           futuro                                                      se costruisce cittadini consapevoli, preparati, fiduciosi, collaborativi, curiosi, colti, uomini e donne ricchi di valori e di cultura.
 

Se facessimo una classifica di pazienti modello gli italiani non sarebbero certo ai primi posti, lo sappiamo da anni.                         Sappiamo che gli italiani si auto riducono i dosaggi, terminano le cure prima di quanto ha detto il medico, non rispettano le posologie, …                                                      Ora, a tutto questo, si è aggiunta una sorta di auto-riduzione dei farmaci prescritti.                       Ma il vero problema è che ora tutto ciò che già accadeva, e molto di più, è originato dalle difficoltà economiche in cui versano molti italiani.                                  E se prima le autoriduzioni di posologia o durata della terapia erano frequenti soprattutto nelle patologie acute, oggi la rinuncia alla terapia, o la sua drastica riduzione, avviene soprattutto nelle patologie croniche.                                                                   E raramente il medico è a conoscenza della situazione: il paziente non ha la forza, o il coraggio, di dichiarare al medico la sua realtà.                                                                  Ancora una volta, dunque, è il farmacista colui che ha maggiormente il polso della situazione, e che è chiamato, sebbene non ufficialmente, a supportare il paziente.                                                                   Cosa può dunque fare il farmacista?                                                      Il mio parere personale è di creare una vera e propria rete di allerta, sostegno e valutazione che coinvolga il farmacista “di quartiere” e il medico di base, che abbia anche la possibilità di intervento reale nel fornire farmaci a chi, davvero, rinuncia alle terapie per motivi economici. È un sogno, lo so.                                           Rimanendo su azioni concrete credo che il farmacista possa fare molto con le sue capacità di sostegno e consiglio, senza sostituirsi al medico.                                          Credo anche che il futuro sia nello sviluppo di  competenze di coaching per il medico e il farmacista. Competenze che permettono di motivare il paziente, supportarlo durante la terapia, finalizzare le cure, e ridurre anche i costi in numerose sfaccettature del sistema sanitario consentendo così di ricavare risorse per fornire terapie totalmente gratuite a chi, altrimenti, non può permettersele.                               Un sogno anche questo, ma più facile da raggiungere rispetto al precedente.
 

Non è, ovviamente, mia intenzione dare consigli su rimedi della nonna, antiche ricette o terapie alternative, ma solo riflettere, e farvi riflettere, su                         come rispondere al paziente che vi racconta di cure di supporto che, a lui, appaiono tanto efficaci.                                                      Le situazioni sono molteplici, e i rimedi sono infiniti.                       Si va dai consigli alimentari alle cure palliative, dai decotti alle sciarpe rosse: si usa di tutto e si sente di tutto. Talvolta sono i rimedi della nonna, altre volte sono antiche ricette lette su qualche rivista di salute, o consigli letti sul web o ricevuti da qualche amico.                                                      Siatene certi: la maggior parte dei vostri pazienti fa uso di qualche rimedio, integratore, elemento salutistico o alimento prodigioso, sia che ve lo racconti sia che stia in totale silenzio                      . Ci sono gli alimenti salutari, le medicine alternative, i rimedi tramandati in famiglia, le pubblicità …                                                                                                 È chiaro che il medico dovrà valutare caso per caso, ma ci sono alcune raccomandazioni (dettate dal buon senso, oltre che dallo studio della comunicazione) che valgono sempre.                                                                              Il primo consiglio è che                           è sempre meglio sapere tutto quello che il paziente assume o fa,                          soprattutto se siete il medico di famiglia che tiene le fila della sua storia clinica.                                                                  Se contestate, sminuite, rifiutate o ridicolizzate ogni rimedio che i vostri pazienti ritengono efficaci ciò che otterrete non sarà l’eliminazione delle aggiunte, palliative o terapeutiche, ma solo e semplicemente il paziente smetterà di raccontarvi ciò che assume                            .                                                  Il secondo consiglio, strettamente correlato al primo, è che                           l’effetto placebo, nelle sue diverse forme, è un fattore fondamentale per la guarigione, di qualunque malattia.                          Visto che parliamo di rimedi della nonna citerò le parole di mia nonna, quando mi trovò (avevo circa un anno) a mangiare i chicchi d’uva raccolti da terra poiché non arrivavo ai filari: quel che non strozza, ingrassa. Quello che non fa male, va bene.                                                                               Imparate quindi ad accettare quei rimedi che non fanno alcun danno, e accettateli di buon grado.                                  Eliminate, invece, drasticamente ciò che è rischioso o, meglio ancora, sostituitelo con qualcosa che sia innocuo o davvero di supporto.                               Potrete così mantenere alto l’effetto placebo e, contemporaneamente, conservare la fiducia del vostro paziente e un alto livello di dialogo.
 

Dopo una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche e oltre 20 anni di carriera in aziende farmaceutiche multinazionali, e continuando ad aggiornarmi anche da quando faccio la libera professione, credevo si sapere molto sui placebo e sull’effetto placebo. Ma questo libro mi ha affascinato e fatto fare nuove scoperte fin dalle prime pagine.                                          I suoi pregi sono moltissimi.                               I pregi pratici:                       è piccolo, leggero, economico. Può essere messo in borsa e letto ovunque. E anche queste piccole cose non sono da sottovalutare.                                          È scritto benissimo.                       Si pone l’obiettivo di essere un testo divulgativo, e lo è davvero                      . Ricchissimo di cultura e di riferimenti storico – letterari – filosofici manca totalmente di pomposità o frasi contorte che spesso si trovano in questo tipo di libri. Qui c’è la cultura vera.   Einstein diceva “                       Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna                      ”, affermazione che condivido appieno perché chi sa davvero sa anche semplificare i concetti. Fabrizio Benedetti sa. Sa spiegare, sa affascinare.                               E il libro è anche affascinante per i contenuti, il rigore scientifico.                               È imperdibile per tutti coloro che lavorano in ambito salute, ed è utile per tutti.
 

Il titolo completo del libro è                                       Intelligenza emotiva                                                                Cos’è e perché può renderci felici.                                                                   Daniel Goleman è sicuramente il più autorevole esperto mondiale di intelligenza emotiva. Il libro viene talvolta dichiarato “fuori catalogo”, ma vi assicuro che si trova ancora, sia in libreria che per gli acquisti on line.                               Queste le notizie pratiche. E poi, che dire?                               È interessante, scritto bene, leggibilissimo. E, soprattutto, imperdibile per chiunque abbia interesse per le relazioni umane, per chi educa, collabora o guida altri esseri umani.
 





