Il medico e l’ascolto 2° parte
Prosegue l’analisi di alcuni comportamenti che si manifestano ascoltando.

Saper ascoltare è particolarmente importante, nella professione medica, durante la fase di anamnesi.
Tuttavia il motivo per cui il medico dovrebbe saper ascoltare sono più complessi, e persino più significativi. Una buona relazione medico – paziente è fondamentale per la compliance, e molte indagini evidenziano come ciò che più lamenta il paziente sia una carenza di ascolto da parte del medico.
L’equivoco che per ascoltare adeguatamente sia necessario spendere una gran quantità di tempo crea ulteriori danni. Non è il tempo dedicato che rende buono l’ascolto.
La conoscenza, e l’applicazione, dei comportamenti di un buon ascoltatore può invece essere d’aiuto.
- Verificare che gli interlocutori abbiano compreso. È opportuno, soprattutto quando ci possono essere fraintendimenti legati a linguaggio tecnico, o incomprensioni su indicazioni fornite, verificare che l’interlocutore abbia compreso. Per farlo non è certo opportuno chiedere se l’interlocutore ha capito, né è generalmente chiedere se si è stati chiari, soprattutto nel caso di un dialogo medico – paziente. Si può invece chiedere: quindi cosa farà da domani? Quale delle indicazioni le sembra più semplice (o più difficile) da mettere in pratica? O altre domande che invitino indirettamente il paziente a ripetere le indicazioni ricevute.
- Non smettere mai di ascoltare, soprattutto se si presume di indovinare cosa l’altro sta per dire. È nell’inatteso che facciamo le migliori (e più utili) scoperte sugli altri, e su noi stessi. Smettere di ascoltare quando si presume di sapere cosa dirà l’altro è purtroppo un comportamento frequente, ed estremamente dannoso per un ascolto valido. Fate in modo di evitarlo.
- Prendere appunti per poter ricordare meglio. Ecco, a mio avviso, un comportamento controverso. È indubbio che prendendo appunti si ricorda meglio ciò che ha detto l’interlocutore. È anche indubbio che chi parla può sentirsi lusingato dal fatto che le sue parole siano tanto importanti da essere oggetto di appunti. È però anche vero che, soprattutto nelle situazioni in cui l’interlocutore deve sentirsi accolto, il distogliere lo sguardo, perdendo quel contatto degli occhi tanto importante, può essere dannoso. Un buon compromesso può essere fornire prima dell’inizio del colloquio l’informazione che verranno presi appunti per ricordare meglio, magari ponendo l’informazione sotto forma di richiesta (le spiace se prendo appunti per ricordare meglio).
- Fare regolarmente il punto della situazione nel corso della conversazione. Qui non ci sono dubbi: è un comportamento adeguato in ogni situazione, tranne che quando diventa insensata pedanteria (può succedere). Cercate sempre di fare il punto della situazione utilizzando parafrasi, sintesi, senza far uso di linguaggio tecnico e ricorrendo il più possibile a metafore.
- Evitare, assolutamente, di concludere la frase o le parole dell’interlocutore. Ripetere esattamente le parole o le frasi dell’interlocutore è una forma di ascolto (chiamato ascolto riflessivo) utilizzato spesso in psichiatria per rendere chi parla pienamente consapevole di ciò che dice. Ma il vero ascolto riflessivo non ha nulla a che fare con la fastidiosissima abitudine di alcuni di concludere le parole o le frasi di chi parla!
E … il seguito alla prossima puntata.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






