I nemici della comunicazione: la paura
La paura è un importante ostacolo alla comunicazione, soprattutto se non viene riconosciuta
Il dizionario di italiano definisce la paura
come uno stato emotivo di turbamento e repulsione nei confronti di una cosa che è o viene considerata dannosa o pericolosa.
La paura, in se stessa, è un’emozione che ha anche risvolti positivi e utili: ci permette di evitare i pericoli, di reagire davanti a situazioni dannose.
Alla nascita, o, meglio, fin dalla nascita, abbiamo due forme di paura primordiali:
la paura del vuoto e la paura dei rumori improvvisi. Tutte le altre sono paure indotte, che ci costruiamo man mano ed entrano successivamente a far parte della nostra Mappa del Mondo.
Spesso pensiamo che la paura del buio sia “naturale e spontanea”, e la ricolleghiamo al timore che gli uomini primitivi avevano del buio come elemento che conteneva animali feroci e pericoli ignoti. Non è credibile! Se la paura del buio fosse insita nell’essere umano, e non indotta, probabilmente Dio avrebbe provveduto a far sì che nell’utero materno ci fosse una sorta di illuminazione, altrimenti il nascituro è condannato a nove mesi di puro terrore.
Io penso che colleghiamo la paura al buio perché quando abbiamo paura copriamo il nostro mondo con una sorta di mantello nero, buio, che ci impedisce di vedere alcunché attorno a noi.
E la paura è un grande nemico della comunicazione.
Quando abbiamo paura riusciamo a sentire solo in parte ciò che viene detto:
percepiamo solo la comunicazione verbale perché siamo completamente ciechi rispetto a quella non verbale, e non riusciamo a rispondere, o quanto meno le risposte sono enormemente rallentate. Siamo quasi incapaci di parlare, con il classico groppo in gola, e le risposte sono sempre parziali.
Il nostro corpo reagisce.
Quando abbiamo paura le mani (e i piedi) si raffreddano: il sangue affluisce agli organi vitali come forma di protezione e defluisce dalle estremità.
Se fosse possibile monitorare la temperatura delle mani di un paziente durante la visita medica
si otterrebbe un grafico che evidenzia di cosa ha paura: la mani sono più fredde all’ingresso?
Teme il colloquio con il medico. Diventano più fredde durante la visita?
Si sente a disagio, magari teme il contatto fisico.
Si raffreddano, invece, quando attende che comunichiate la diagnosi?
Teme il responso e, in pratica, attende la condanna.
Anche la posizione del corpo, delle braccia e delle gambe si modifica quando abbiamo paura, ma la loro lettura è più complessa e variegata.
In genere la paura induce il corpo a ripiegarsi su se stesso, a proteggere il ventre in quanto parte più debole. Braccia e gambe si chiudono, si incrociano, si accavallano.
Il paziente che ha paura
fatica a parlare. L’anamnesi è complessa e solitamente incompleta. Ma anche della diagnosi percepirà solo una parte, e spesso sarà la parte che conferma i suoi timori, perché quando abbiamo paura siamo un po’ masochisti.
Fornire indicazioni terapeutiche solo a parole ad un paziente che ha paura è assolutamente inutile. Se va bene, ne capisce una parte, ma sicuramente non è in grado di far domande di approfondimento, che farà poi a qualcuno quando sarà uscito dall’ambulatorio.
Questo per il paziente.
Ma anche il professionista, il farmacista, il medico, può dover lavorare in giornate in cui soffre di paura.
Paura per se stesso, per i suoi cari, per eventi che gli sono capitati, perché scade la rata del mutuo.
Può capitare, è lecito e consentito, una giornata di malattia per influenza, emicrania, mal di stomaco. Ma non è consentita la giornata di malattia perché la vita ci ha messo in una condizione di paura. Anche se nel nostro lavoro la capacità di comunicare con gli altri è fondamentale e siamo consapevoli che lo stato di paura ci rende più difficile parlare, ascoltare e farci capire, siamo tenuti a lavorare lo stesso.
Ed è in questi casi che la conoscenza delle tecniche, dei trucchi del mestiere, delle strategie di comunicazione ci permette di non lasciarci sopraffare perché, come insegnano tutti i testi di strategia di guerra, un nemico noto è già in buona parte sconfitto.

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …







