Soft sklls - Insegnare a dialogare

Il dialogo è importante solo se ci arricchisce, se chiarisce idee che ci aiutano a percorrere meglio il cammino della nostra esistenza. Romano Battaglia

Ovviamente per insegnare a dialogare bisogna insegnare ad ascoltare e a parlare. Dell’ascolto abbiamo già parlato, o almeno segnalato qualcosa. Sull’insegnare ad esprimersi di potrebbe scrivere molto, ma oggi mi interessa insegnare e farvi insegnare un modo per affrontare quei dialoghi antipatici, che possono diventare litigi.

E partiremo proprio da questo: una situazione di controversia aperta, di discussione anche feroce.

Siete pronti?

L’esercizio più semplice è chiedere ai vostri studenti di raccontare un fatto reale di discussione tra due persone.

E ora ipotizziamo che Andrea abbia raccontato una sua discussione con Marco, e che la lite sia tutt’ora irrisolta. È facile immaginare che Andrea, man mano che racconta, si emozioni, si arrabbi, e persino che buona parte della classe parteggi per Andrea prima del termine del racconto. E ora è il momento di fare un po’ di teatro.

Andrea diventa temporaneamente il regista del dramma. Sceglierà quindi un compagno che impersona lui stesso e un altro che impersona Marco, più un ulteriore protagonista che lo sostituirà come regista e inizia a far rappresentare la discussione, assicurandosi che gli attori rappresentino adeguatamente i personaggi.

Non appena la scena gli appare realistica, i toni, la postura, i gesti e le parole usate corrispondono alla realtà, Andrea diventa spettatore e il regista prende in mano la scena, facendola rappresentare nuovamente dall’inizio.

Effettuiamo ora una prima interruzione chiedendo agli attori “come si sono sentiti”, quali emozioni hanno provato, quali “verità” hanno sperimentato.

E ora si riparte, rappresentando la scena ancora una volta. Ma ora il regista può aggiungere suggerimenti e i due attori sono liberi di inserire ulteriori variazioni, frasi, atteggiamenti …

Seconda interruzione e nuovo giro di pareri, anche da parte di Andrea. Se necessario, si può ripetere la seconda fase, ma personalmente non è mai successo che fosse necessario. Infatti praticamente sempre il protagonista “comprende” se stesso e il suo antagonista, e identifica cosa dire, e come dirlo, per far sì che la lite diventi un dialogo costruttivo.

La teoria su cui è basato l’esercizio è quella delle posizioni percettive. Ogni cosa, e in particolare una controversia, può essere vista e vissuta da diverse posizioni:

  • 1° posizione - Io: si guardano le cose dal proprio punto di vista, ed è chiamata anche Posizione di Forza. Chi agisce dalla prima posizione ha fiducia in se stesso e desidera far valere la propria volontà.
  • 2° posizione - Tu: si guardano le cose dal punto di vista dell’altro, ed è chiamata anche Posizione di Compassione. Chi agisce dalla seconda posizione comprende il punto di vista altrui, vive la piena empatia e desidera condividere
  • 3° posizione - Lui / Lei – Noi: si guardano le cose da entrambe i punti di vista, ed è chiamata anche Posizione di Mediazione o Posizione di Compromesso. Chi agisce dalla terza posizione predilige la neutralità, si impegna a capire le ragioni di entrambe e cerca il compromesso
  • 4° posizione - Loro: si guardano le cose dal di fuori ed è chiamata anche Posizione di Apprendimento o Posizione di Negoziazione. Chi agisce dalla quarta posizione si impegna a negoziare, a creare qualcosa di nuovo pienamente soddisfacente per entrambe.

Vi ricordo che esiste una profonda differenza tra mediare e negoziare. Nella mediazione si cerca di trovare una via di mezzo, un compromesso, inducendo entrambe le parti ad una rinuncia. Nella ricerca del compromesso è pressoché inevitabile che uno vinca e uno perda, e nella migliore delle ipotesi perdono entrambe.

Nella negoziazione invece si cerca una soluzione che soddisfi almeno un desiderio (bisogno) importante di ciascuna parte in causa, si va oltre l’argomento della contesa, si cercano le intenzioni positive dei contendenti e di inventano soluzioni nuove.

L’esercizio suggerito è finalizzato alla negoziazione. Infatti Andrea ha la possibilità di comprendere le ragioni di Marco, sperimentando la seconda pozione, ma anche di guardare se stesso “dal di fuori”, con buone probabilità di arrivare alla quarta posizione.

Io amo pensare che ci sia anche una quinta posizione, quella del pensiero sistemico, che riesce a guardare anche ciò che sta attorno, le conseguenze a lungo termine, l’ambiente … Ma questa è un’altra storia!

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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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