Soft skills Insegnare gestione di sé

Non si può insegnare qualcosa ad un uomo Lo si può solo aiutare a scoprirla dentro di sé. Galileo Galilei

Insegnare a gestire se stessi è il nucleo essenziale dell’educare. Secondo me (ed è un parere personale) è solo quando cominciamo a gestire noi stessi che abbiamo buone probabilità di raggiungere il benessere.

In questo ambito il primo, e più importante, insegnamento è l’esempio. Credo sia essenziale insegnare i valori dell’onestà, del rispetto, della giustizia.

Tuttavia c’è qualcosa, che almeno per me, è stato fondamentale, che può essere insegnato a qualunque età, e meglio ancora se viene insegnato nelle scuole primarie.

Si parte da una constatazione molto semplice: noi possiamo vivere i nostri ricordi sia in modalità associata che in modalità dissociata.

  • Ricordare in modalità associata significa che ogni volta che ripensiamo a quel preciso ricordo lo riviviamo: siamo associati a noi stessi del passato, riviviamo le emozioni e l’esperienza come se la stessimo rivivendo in quel preciso momento.
  • Viceversa ricordare in modalità dissociata significa che quando ripensiamo ad un’esperienza la vediamo come l’io del passato fosse un attore di un film. Ricordiamo perfettamente, sappiamo bene quali emozioni abbiamo provato, siamo in grado di descriverle nei minimi particolari, ma non le proviamo più.

È poi ovvio che ciascuno di noi ha ricordi felici e ricordi infelici. Qualunque sia l’età, ciascuno ha nel passato avvenimenti che l’hanno reso felice e altri che l’hanno fatto soffrire.

Mettiamo ora insieme le cose.

  • Le persone che vivono in modalità associata sia i ricordi felice sia quelli tristi sono le persone emotive, che non sanno mai staccarsi dal passato.
  • Coloro che vivono in maniera dissociata sia i ricordi tristi sia quelli felici sono persone distaccate.
  • Chi, invece, vive in modalità associata i ricordi tristi e in modalità dissociata i ricordi felici è un ottimo candidato alla depressione, e sicuramente è una persona triste.
  • Infine, chi vive in modalità dissociata i ricordi tristi e in modalità associata i ricordi felici è una persona serena.

Ovviamente ciascuno di noi ha una sua tendenza, o abitudine. Ma ci sono diversi esercizi per imparare ad associarsi o a dissociarsi nel rivivere un’esperienza. Alcuni esercizi sono complessi, o almeno necessitano di una guida all’inizio.

Ma … c’è un modo per iniziare il percorso talmente semplice da sembrare troppo ovvio e banale, eppure funziona: scrivere.

  • Scrivere, raccontare un’esperienza in prima persona induce, ovviamente, a viverla in modalità associata. Viceversa scriverne in terza persona aiuta a viverla in modalità dissociata. (invece, soprattutto da adolescenti, le esperienze tristi si traducono in poesie, scritte in prima persona: ottime per piangere, ma disastrose per elaborare le esperienze).

Quando si impara a vivere in modalità dissociata le proprie tristezze, si può iniziare ad elaborarle, capirne il motivo, comprenderne gli insegnamenti. Ma questa “è un’altra storia”.


Ci sono altre cose essenziali che potete insegnare ai vostri alunni di qualunque età: essere flessibili, essere proattivi, riconoscere i propri modelli mentali.

C’è, infine, un altro elemento fondamentale per la gestione di sé: il pensiero sistemico. Ma su questo i bambini sono più bravi degli adulti! 

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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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