I nemici della comunicazione: l’invidia
Un'emozione difficile da ammettere, e un forte nemico della comunicazione

L’invidia è particolarmente insidiosa per chi ha avuto un’educazione cattolica.
Infatti siamo abituati a considerare l’Invidia, uno dei sette vizi capitali, come una forma di perfetta cattiveria che ci fa desiderare il male altrui:
vi ricordo che Dante definisce gli invidiosi come coloro che gioiscono delle disgrazie degli altri.
In realtà esiste una forma lieve di invidia, che sicuramente non merita punizione divina, ma che crea non pochi danni a chi la prova.
È definibile invidia quella modalità di pensiero che induce a ritenere l’altro, che ha ottenuto risultati che noi stessi vorremmo, ma che raramente abbiamo cercato, non in virtù di fatiche che non abbiamo voluto fare, ma solo grazie a qualcosa che loro hanno e noi no.
L’invidia è chiaramente collegata con il colore verde, che pone un filtro molto particolare nella nostra Comunicazione.
L’invidia soft non altera la capacità di parlare con gli altri: ciò che diciamo, per quanto paradossale, in preda all’invidia è esattamente ciò che pensiamo. La disfunzione comunicazionale quando proviamo invidia è nei confronti di noi stessi, e proprio per questo è tanto più subdola e pericolosa.
La conversazione con questi invidiosi soft spesso è divertente, se siamo dotati di senso del ridicolo. Qualche esempio? (vi assicuro che sono presi dalla realtà, per quanto assurdi)
- Beata te che hai i soldi per fare dei bei viaggi!
- Guarda che non è una questione di scelta. Il mio viaggio in Namibia è costato sicuramente meno della tua vacanza in Liguria. Te lo dimostro: facciamo i conti.
- Sì, va bene, ma è stato un caso. Io so bene che viaggiare costa e tu puoi permettertelo, io no.
- Beata te che hai tempo per leggere.
- È una mia scelta. Tu preferisci andare al cinema o a cena con gli amici, io amo stare in casa a leggere. Sono più di sei mesi che non metto piede in un cinema ed è più di un mese che non vado a cena fuori. So che tu sei andata fuori a cena sia sabato che domenica, e domenica eri a vedere il nuovo film appena uscito.
- Mi avevano regalato i biglietti, dovevo buttarli via?
- Certo che no. Ti sto solo dicendo che io non ho più tempo di te, solo lo impiego diversamente.
- Vedi che sei più fortunata di me?
- Beata te che sei sempre così serena e forte. Io sto attraversando un periodo nero.
- Non sono sempre serena, anch’io ho momenti neri, come tutti. Cerco di reagire.
- Già, tu sei tanto forte. Sei fortunata!
- Non direi che sia proprio fortuna, forse volontà. Sai benissimo che ho avuto la mia dose di disgrazie.
- Certo, molto peggiori delle mie, soprattutto quelle avute nell’infanzia. Vedi che capisci cosa intendo? Tu hai avuto la fortuna di avere delle disgrazie che ti hanno insegnato ad essere forte.
Vi confesso che come coach evito di permettere questi ragionamenti, usando ampiamente tecniche di comunicazione, ma come libero cittadino trovo queste conversazioni spassosissime.
L’invidia, quella soft, impedisce di fare una corretta e spassionata valutazione di se stessi e quindi di migliorare. Si blocca totalmente la comunicazione interiore, e quella con gli altri diventa paradossale.
Il tipo di invidia soft è molto diffuso, praticamente nessuno ne è totalmente esente. A volte può essere ascritta ai “meccanismi di sopravvivenza”, perché non siamo sempre obbligati a mettere noi stessi sotto esame o sotto sforzo per essere migliori. A volte è anche bello, addirittura utile, pensare che gli altri sono migliori di noi, o hanno ottenuto di più, per caso o per fortuna anziché per meriti.
A volte è necessario, bello, utile, essere pazienti e tolleranti con i nostri difetti e i nostri limiti. Ma senza esagerare e, soprattutto, senza permettere (questo mai!) ai nostri difetti e ai nostri limiti di comandarci e di limitarci.

Quando si parla di rinnovare la scuola, soprattutto la scuola dell’obbligo, sento che alla base c’è un grande equivoco, un enorme fraintendimento che vanifica qualunque buona intenzione. Lo so: non ho alcun titolo per fare questa affermazione. E infatti il mio non è un giudizio, ma una riflessione, che pure sento condivisa da tanti insegnanti sicuramente volonterosi e scrupolosi, e dubbiosi sul loro futuro e su quello dei loro studenti. Come dice Snoopy “ educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco ”. Ci sono altre frasi, altri dotti autori, che nel tempo hanno affermato lo stesso concetto: mi piace riprendere le parole di Snoopy perché hanno tutta la saggezza dei nostri bambini. I politici, deputati a fare la riforma scolastica o almeno a prendersi cura della scuola, continuano ad affermare che la scuola deve preparare al mondo del lavoro, deve formare i ragazzi per il futuro. L’equivoco è proprio qui. È vero che la scuola deve preparare i ragazzi, è vero che la scuola può e dovrebbe fornire tecniche, strumenti, mezzi per il futuro e per il mondo del lavoro. Ma pensiamo un attimo alla differenza del mondo del lavoro tra quando andavamo noi a scuola e quando poi siamo andati a lavorare, o alla differenza della società tra quando abbiamo iniziato a lavorare e oggi. C’è un abisso! Ci sono differenze enormi. E l’accelerazione ai cambiamenti a cui assistiamo fanno pensare che tra oggi e il 2030, 2040, quando andranno (speriamo) a lavorare i ragazzi che oggi sono alle scuole elementari le differenze saranno davvero impensabili. Come possiamo preparare i bambini ad un futuro che ci è totalmente ignoto, ad un mondo del lavoro che non conosciamo? Le differenze tra l’oggi e i successivi 15-20 anni erano molto meno marcate 30 o 50 anni fa. Non possiamo preparare gli studenti di oggi al mondo del lavoro del futuro, semplicemente perché non sappiamo quale sarà il mondo del lavoro in futuro. Quello che possiamo (e, credo, dobbiamo fare) è mettere gli studenti di oggi in condizione di costruirsi il futuro, di affrontare al meglio il mondo del lavoro e la loro vita futura. Dobbiamo fornire le basi affinché abbiano voglia di impegnarsi per creare un futuro e una società migliore, migliore anche di quella che gli stiamo mostrando oggi. Oggi, più che mai, dobbiamo trasmettere un fuoco di cultura vera, creativa, gioiosa. Se per farlo è necessario aumentare le tecnologie a scuola (ed è necessario) gli insegnanti dovranno impegnarsi per apprenderle e usarle. Ma ricordando che la tecnologia è un mezzo, non un fine . La scuola non prepara al futuro: la scuola prepara il futuro se costruisce cittadini consapevoli, preparati, fiduciosi, collaborativi, curiosi, colti, uomini e donne ricchi di valori e di cultura.

Se facessimo una classifica di pazienti modello gli italiani non sarebbero certo ai primi posti, lo sappiamo da anni. Sappiamo che gli italiani si auto riducono i dosaggi, terminano le cure prima di quanto ha detto il medico, non rispettano le posologie, … Ora, a tutto questo, si è aggiunta una sorta di auto-riduzione dei farmaci prescritti. Ma il vero problema è che ora tutto ciò che già accadeva, e molto di più, è originato dalle difficoltà economiche in cui versano molti italiani. E se prima le autoriduzioni di posologia o durata della terapia erano frequenti soprattutto nelle patologie acute, oggi la rinuncia alla terapia, o la sua drastica riduzione, avviene soprattutto nelle patologie croniche. E raramente il medico è a conoscenza della situazione: il paziente non ha la forza, o il coraggio, di dichiarare al medico la sua realtà. Ancora una volta, dunque, è il farmacista colui che ha maggiormente il polso della situazione, e che è chiamato, sebbene non ufficialmente, a supportare il paziente. Cosa può dunque fare il farmacista? Il mio parere personale è di creare una vera e propria rete di allerta, sostegno e valutazione che coinvolga il farmacista “di quartiere” e il medico di base, che abbia anche la possibilità di intervento reale nel fornire farmaci a chi, davvero, rinuncia alle terapie per motivi economici. È un sogno, lo so. Rimanendo su azioni concrete credo che il farmacista possa fare molto con le sue capacità di sostegno e consiglio, senza sostituirsi al medico. Credo anche che il futuro sia nello sviluppo di competenze di coaching per il medico e il farmacista. Competenze che permettono di motivare il paziente, supportarlo durante la terapia, finalizzare le cure, e ridurre anche i costi in numerose sfaccettature del sistema sanitario consentendo così di ricavare risorse per fornire terapie totalmente gratuite a chi, altrimenti, non può permettersele. Un sogno anche questo, ma più facile da raggiungere rispetto al precedente.

Non è, ovviamente, mia intenzione dare consigli su rimedi della nonna, antiche ricette o terapie alternative, ma solo riflettere, e farvi riflettere, su come rispondere al paziente che vi racconta di cure di supporto che, a lui, appaiono tanto efficaci. Le situazioni sono molteplici, e i rimedi sono infiniti. Si va dai consigli alimentari alle cure palliative, dai decotti alle sciarpe rosse: si usa di tutto e si sente di tutto. Talvolta sono i rimedi della nonna, altre volte sono antiche ricette lette su qualche rivista di salute, o consigli letti sul web o ricevuti da qualche amico. Siatene certi: la maggior parte dei vostri pazienti fa uso di qualche rimedio, integratore, elemento salutistico o alimento prodigioso, sia che ve lo racconti sia che stia in totale silenzio . Ci sono gli alimenti salutari, le medicine alternative, i rimedi tramandati in famiglia, le pubblicità … È chiaro che il medico dovrà valutare caso per caso, ma ci sono alcune raccomandazioni (dettate dal buon senso, oltre che dallo studio della comunicazione) che valgono sempre. Il primo consiglio è che è sempre meglio sapere tutto quello che il paziente assume o fa, soprattutto se siete il medico di famiglia che tiene le fila della sua storia clinica. Se contestate, sminuite, rifiutate o ridicolizzate ogni rimedio che i vostri pazienti ritengono efficaci ciò che otterrete non sarà l’eliminazione delle aggiunte, palliative o terapeutiche, ma solo e semplicemente il paziente smetterà di raccontarvi ciò che assume . Il secondo consiglio, strettamente correlato al primo, è che l’effetto placebo, nelle sue diverse forme, è un fattore fondamentale per la guarigione, di qualunque malattia. Visto che parliamo di rimedi della nonna citerò le parole di mia nonna, quando mi trovò (avevo circa un anno) a mangiare i chicchi d’uva raccolti da terra poiché non arrivavo ai filari: quel che non strozza, ingrassa. Quello che non fa male, va bene. Imparate quindi ad accettare quei rimedi che non fanno alcun danno, e accettateli di buon grado. Eliminate, invece, drasticamente ciò che è rischioso o, meglio ancora, sostituitelo con qualcosa che sia innocuo o davvero di supporto. Potrete così mantenere alto l’effetto placebo e, contemporaneamente, conservare la fiducia del vostro paziente e un alto livello di dialogo.

Dopo una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche e oltre 20 anni di carriera in aziende farmaceutiche multinazionali, e continuando ad aggiornarmi anche da quando faccio la libera professione, credevo si sapere molto sui placebo e sull’effetto placebo. Ma questo libro mi ha affascinato e fatto fare nuove scoperte fin dalle prime pagine. I suoi pregi sono moltissimi. I pregi pratici: è piccolo, leggero, economico. Può essere messo in borsa e letto ovunque. E anche queste piccole cose non sono da sottovalutare. È scritto benissimo. Si pone l’obiettivo di essere un testo divulgativo, e lo è davvero . Ricchissimo di cultura e di riferimenti storico – letterari – filosofici manca totalmente di pomposità o frasi contorte che spesso si trovano in questo tipo di libri. Qui c’è la cultura vera. Einstein diceva “ Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna ”, affermazione che condivido appieno perché chi sa davvero sa anche semplificare i concetti. Fabrizio Benedetti sa. Sa spiegare, sa affascinare. E il libro è anche affascinante per i contenuti, il rigore scientifico. È imperdibile per tutti coloro che lavorano in ambito salute, ed è utile per tutti.





