Diffidate del bene comune

Talvolta in nome del bene comune si impongono scelte, sacrifici. Ma spesso c’è il trucco, e qui trovate alcune riflessioni per identificare chi è davvero sincero.

Superati gli anni del carrierismo a tutti i costi, superato il tempo dei fiori nei cannoni, sembra che si stia aprendo una nuova epoca di valori. Per carità, non illudetevi troppo: per ora sono solo spiragli, ma l’ecologia sta prendendo piede, o almeno nessuno si vergogna più nel sostenerla, anche nel mondo degli affari e delle aziende. E non parlo solo dell’ecologia relativa al rispetto dell’ambiente, del verde, evitare di inquinare, salviamo gli animali e altre (bellissime e condivisibili) tesi e comportamenti. Finalmente si parla anche, senza pudore, dell’ecologia dei comportamenti e dei valori tra esseri umani.

Così si può affermare, senza essere tacciati di buonismo, che dire grazie, per favore, scusa, in ambiente di lavoro, con capi e dipendenti, è un comportamento sano e auspicabile. Si parla di ricchezza del capitale umano, e chi ne parla ci crede anche, e magari si comporta persino in maniera coerente.

Sull’onda di questo nuovo entusiasmo, vorrei proporre di fare un passo in più: diffidate del bene comune.

O, per essere più precisi e comprensibili, diffidate di chi afferma che ciò che fa, chiede o propone, è finalizzato al bene comune. Se non conoscete in profondità chi fa questa affermazione, non credeteci. E men che meno credete a chi afferma di far qualcosa “per il vostro bene”.

NO! Via i sorrisetti ironici: non parlo né per delusioni personali, né per sfiducia verso il genere umano, tutt’altro.
Abbiate un po’ di pazienza: cercherò di essere chiara e breve.

Alcune migliaia di anni fa furono scritti, in posti del mondo molto lontani tra loro, alcuni testi che, fortunatamente, sono giunti fino a noi: l’I Ching, in Cina, la Kabbalah ebraica e il Vedanta in India.

Tra loro ci sono molte differenze, ma anche alcune, curiose, analogie. Tra le analogie vanno citati il concetto stesso di proattività, considerato basilare, e il fatto che l’essere umano deve perseguire attivamente il proprio compito e il superamento del proprio ego.
Molti hanno poi scritto, nei secoli, su questo argomento. Poco a poco quel superamento attivo dell’ego è diventato una sorta di gretto altruismo, buonismo mascherato.

Eppure molti santi, in tempi diversi, hanno evidenziato che la motivazione che li ha spinti a fare ciò che hanno fatto, e che li ha resi santi ai nostri occhi e al nostro sentire, è stato realizzato esclusivamente in virtù della gioia che loro stessi provavano. Non hanno parlato di sacrificio.

Superare attivamente l’ego significa prima di tutto riconoscerlo. Noi siamo mossi da piccoli o grandi desideri egoistici. Quando li riconosciamo siamo in grado di realizzarli, se questo è in linea con la saggezza, la Luce, Dio, o comunque vogliamo chiamare quella forza che gestisce il tutto, o di respingerli, se li riconosciamo come antiecologici o non etici.

Per me questo di chiama ricerca della consapevolezza, ma esistono tante altre definizioni.

Invece, e purtroppo, la nostra cultura bolla i desideri personali come meschini, come qualcosa da nascondere invece che da superare. 
In Italia assistiamo al costante naufragio di associazioni, reti di impresa, start up … I motivi sono tanti: non desidero essere semplicistica. Ma qualche esperienza mi ha convinto che molti di questi naufragi non avverrebbero se accettassimo e riconoscessimo i piccoli desideri egoistici che ci governano prima di appellarci al bene comune.

Cosa c’è di male nel desiderio, riconosciuto, di vile denaro, di apprezzamento personale, di sicurezza, di potere (se non esercitato a danno altrui), di sentirsi importanti, di creare un posto di lavoro ad un figlio attraverso la costruzione di un’azienda? (no, non parlo di ciò che viene regolarmente fatto, di nascosto, da tutti quelli che possono: sistemare figli e parenti fino al nono grado. Parlo di veri imprenditori che perseguono responsabilità e accettano rischi anche per creare un futuro ai loro figli).

Così nascondiamo, a noi stessi e agli altri, quei desideri che chiamiamo meschini ed egoistici. E loro vengono fuori, fanno fallire le associazioni, le reti di impresa, le start up. Poi spendiamo migliaia di euro per insegnare il ricalco ai manager, o per spiegare ai negoziatori che devono comprendere i bisogni profondi degli interlocutori.
Già, perché quando riconosciamo, attraverso l’empatia, la comprensione, l’accettazione e la sospensione del giudizio, i legittimi desideri personali del nostro prossimo otteniamo risultati sorprendenti.

E ancor più sorprendenti sono gli esiti del riconoscimento e accettazione dei nostri desideri egoistici: quando li accettiamo scopriamo che possiamo andare oltre, scegliere, esserne liberi.

Diffidate, quindi, di chi riempie le frasi di bene comune, e cercate negli occhi del prossimo chi è ben consapevole del proprio egoismo: chi lo riconosce sa esserne padrone, non schiavo.
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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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