Soft skills - Come lavorare insieme

Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito. Antoine di Saint Exupery

Per lavorare insieme bisogna avere una Vision condivisa. Non illudetevi: avere una vision condivisa è tutt’altro che facile, e questo è il motivo principale per cui falliscono tante potenziali collaborazioni. 

Per una vision condivisa ci vuole dialogo, pazienza, empatia, comprensione, buona volontà, ascolto, disponibilità … 

Per qualunque progetto, grande o piccolo che sia, la vision condivisa è essenziale, e ottenerla è un processo. Può essere un processo lungo o breve, ma è sempre un percorso da compiere e, in realtà, condividere la vision è il primo obiettivo di qualunque gruppo di lavoro.

Ogni volta che mi sono trovata a definire o condividere una vision ho riscontrato due elementi di vitale importanza: le motivazioni dei singoli partecipanti e il significato che ciascuno dà alla frase che esprime la vision. 

Parto dalle motivazioni.

Una vision può essere condivisa solo se consente la realizzazione di almeno un desiderio profondo di ciascuno dei partecipanti. 

  • Qualcuno sostiene che per perseguire la vision condivisa ciascuno rinuncia a parte della propria vision in nome del “bene comune”. Non sono d’accordo, non credo ai sacrifici e alle rinunce: prima o poi si trasformano in pretese o rancori. Credo invece nelle sinergie, per cui insieme è possibile ottenere qualcosa in più, o qualcosa di più completo, rispetto a quanto sia realizzabile da soli. 

Per lavorare bene insieme è quindi essenziale condividere un sogno. Una vision è, appunto, un sogno. Non è un obiettivo, il quale deve contenere un punto di arrivo, dei tempi, essere espresso con verbi al presente, essere responsabilizzante, … Una vision è qualcosa di diverso: un desiderio a cui si tende.

Eppure non è semplice esprimere un desiderio profondo. Non è solo perché esprimere un desiderio profondo vuol dire mettersi in gioco, e tantomeno è per non voler essere sinceri. Ci sono pudori, paure, alibi, … e spesso c’è quella superficialità che spesso contraddistingue la nostra epoca. Però, spesso, basta che uno dei partecipanti passi ad un livello di ascolto e di dialogo profondo e gli altri si sentono quasi improvvisamente liberi di esprimersi. 

Una vision si esprime con una frase: non c’è bisogno di dire di più.

Ed è a questo punto che sorgono i problemi, perché le parole non hanno lo stesso significato per tutti. A volte è facile dire “sono d’accordo” anche se non è vero, ma sono molti di più i casi in cui si pensa di essere davvero sulla stessa lunghezza d’onda ma poi nella pratica si danno pesi diversi o priorità diverse che si scontrano alla prima decisione importante. 

D’altra parte nel continuare ad esplorare il significato delle parole e il sentire degli individui c’è il rischio di finire per parlarsi addosso, essere capziosi e perdere tempo prezioso. Non si possono definire tempi o modalità rigide per arrivare a condividere realmente la vision, anche se nei prossimi post vedremo qualche esempio pratico. A volte per cercare di costruire grandi progetti si perdono anche le piccole opportunità, altre volte per paura di avventurarsi in sogni troppo grandi ci si crea limiti inutili. 

Non ci sono vie d’uscita, dunque?

Certo che ci sono! O almeno ci sono alcuni principi base:

essere profondamente sinceri e onesti, prima di tutto con se stessi

  • ascoltare
  • dialogare
  • evitare di giudicare
  • cercare se è possibile creare una vision condivisa, oppure accontentarsi di un obiettivo comune
  • saper essere flessibilmente il leader o colui che segue, a seconda del gruppo e delle circostanze
  • porre limiti a pregiudizi, ingerenze, dittatori e fannulloni, ma senza acrimonia: c’è sempre un modo per farlo!

Buon lavoro e … alla prossima puntata


Autore: Carla Fiorentini 14 dicembre 2025
Durante questo 2025 mi sono chiesta più volte se avevo sbagliato qualcosa nell’interpretare l’I Ching per l’anno. Poi mi sono chiesta se c’era qualcosa che non avevo capito.
Autore: Carla Fiorentini 7 dicembre 2025
La comunicazione è cambiata, tanto, negli anni…
Autore: Carla Fiorentini 30 novembre 2025
La programmazione neurolinguistica identifica 4 posizioni percettive: parliamo della seconda
30 novembre 2025
Sanità che cambia
Autore: Carla Fiorentini 29 novembre 2025
La diagnosi di una malattia grave dà inizio ad un vero viaggio dell’eroe.
Autore: Carla Fiorentini 23 novembre 2025
La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
Autore: Carla Fiorentini 23 novembre 2025
Harry vince la battaglia finale, ma ha vinto molto prima
Autore: Carla Fiorentini 16 novembre 2025
Che succede 10 anni dopo la diagnosi?
Autore: Carla Fiorentini 8 novembre 2025
Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
Autore: Carla Fiorentini 8 novembre 2025
Spesso a diagnosi di malattia grave fa scattare l’inizio di percorso di gestione dell’esperienza, di un viaggio dell’eroe. Portare a termina il nostro viaggio, iniziato con la diagnosi, fa vincere un premio molto speciale.
Show More