Ribaltiamo i modelli mentali - Accoglienza
Ribaltiamo, e svisceriamo, uno dei termini più belli e più complessi che esistono: accoglienza.

Per il vocabolario dell’enciclopedia Treccani accoglienza è l’atto di accogliere, di ricevere una persona.
Un po’ limitativo, secondo me, ma poi rimanda al verbo accogliere e amplia il discorso.
- Ricevere, ricevere nella propria casa, ammettere nel proprio gruppo, soprattutto con riguardo al modo, al sentimento, alle manifestazioni con cui si riceve
- Ricevere, sentire, accettare (notizie, proposte, richieste) con un determinato atteggiamento o stato d’animo
- Riferito a un luogo, a un ambiente, ricevere in sé, anche offrendo rifugio o ospitalità
- Raccogliere, radunare, riunire
Ciascuno dà al termine accoglienza un significato principale, che gli risuona più di altri.
Per me l’accoglienza è un valore del femminino, e di questo sono abbastanza sicura, e riguarda l’accettazione del nuovo e del diverso.
Ma già scrivendo queste parole scatta una riflessione: il nuovo è abbastanza chiaro, ma il diverso?
E mi viene in mente il titolo di un bel film italiano di qualche anno fa: Diverso da chi?
Già, perché nessuno è davvero, totalmente, uguale ad un altro, e la diversità appartiene, fortunatamente, a ciascuno.
Cominciamo parlando di persone, e andando sul pratico.
L’arrivo di una nuova persona in un’azienda.
- I valori femminili di accoglienza e inclusione fanno sì che qualunque nuovo arrivato sia accolto “a braccia aperte”, invitandolo ad esprimere opinioni, a suggerire cambiamenti, a portare novità, nuove idee, nuove procedure, nuovi progetti. Le energie maschili dell’esclusione e del mantenimento dello status quo fanno invece sì che il nuovo arrivato venga indirizzato all’acquisizione dei valori e delle procedure esistenti in azienda.
- In entrambe i casi chi arriva può essere accolto bene o male (sì, anche l’accoglienza a braccia aperte può essere sgarbata), può essere accettato o respinto dal sistema esistente. Dove prevale l’energia femminile si chiede al nuovo arrivato di essere artefice di cambiamenti. Dove prevale l’energia maschile si chiede al nuovo arrivato di acquisire ciò che già esiste.
C’è anche confusione tra accoglienza e inclusione,
spesso usati come sinonimi. Non lo sono, per quanto abbiano similitudini.
Le differenze sono evidenti se, ad esempio, parliamo di immigrazione.
Abbiamo i centri di accoglienza, ricoveri più o meno temporanei, ma è chiaro che l’inclusione richiede molto di più.
- L’accoglienza può essere fatta da superficiali amici su facebook o su altri social network finalizzata a raggiungere “1000 amici – 5000 follower, …” o dall’acquisto dell’ultimo modello di qualunque cosa senza valutarne l’utilità e men che meno la necessità. Ci sentiamo accoglienti nel rimuovere ostacoli all’immigrazione, a patto che, poi, i figli degli immigrati non frequentino le stesse classi dei nostri figli. Ci sentiamo innovatori viaggiando per il mondo, accoglienti perché andiamo nei Paesi poveri, ma poi cerchiamo villaggi italiani che servano spaghetti a pranzo e cena.
Argomentando di accoglienza e inclusione è fin troppo facile arrivare al problema del bullismo, fenomeno fin troppo frequente, ma io desidero fermarmi prima, al quotidiano, senza arrivare alla patologia.
L’accoglienza è un primo passo: accettare, non respingere.
Vale per le persone e per le idee. Si rifiuta l’accoglienza a persone che vengono viste come diverse, si rifiutano le idee che vengono vissute come strane.
Per includere, però, è indispensabile fare un passo in più: cambiare.
L’esempio più semplice che posso trovare è relativo ad un’idea. Posso accogliere un’idea, accettarla, riconoscerla anche come valida. Poi… Gaber diceva che bisogna mangiarla per fare la rivoluzione. Sì, perché per includere un’idea devo farle spazio, spostare le altre idee. Pensate ad un progetto, nuovo, che accogliamo in quanto valido: ci piace. Non basta per renderlo realtà: deve trovare posto nella nostra pianificazione, probabilmente devo cambiare i miei piani, modificare, integrare.
E le persone?
Io vedo due elementi in gioco.
Il primo è riconoscere l’unicità, e quindi la diversità, di ciascuno. Richiede una mappa del mondo flessibile, una zona di comfort ampia, empatia, intelligenza emotiva. Richiede anche una visione del mondo in cui tutti siamo pari. Non uguali, ma pari. Qualunque criterio che implichi superiorità o inferiorità rispetto ad un altro essere umano limita l’accoglienza e ancor più l’inclusione.
Il secondo è la reciprocità. Moltissimi si sono sentiti fin troppo spesso diversi, non accolti, e reclamano a gran voce l’inclusione. Richiesta più che legittima. Non vorrei, però, che dimenticassimo che essere accolti, sentirsi inclusi, è sì un diritto, ma implica la responsabilità di accogliere e includere.
Come ripeto spesso, non è questione di giusto o sbagliato, e non è neanche un inno ad un ipotetico buonismo. Si tratta di consapevolezza e scelte.
Quindi posso solo darti un consiglio, ed è lo stesso consiglio che ho ricevuto io nel mio primo giorno di lavoro da parte del general manager della multinazionale dove ero andata a lavorare: si è rivelato il miglior suggerimento che io abbia mai ricevuto nella mia vita.
“Ogni volta che incontri qualcosa di nuovo, e capiterà ogni giorno, cerca almeno tre analogie e tre differenze con ciò che conosci. Le analogie ti serviranno per essere più disponibile ad accogliere il nuovo e non fartene spaventare. Le differenze ti serviranno per non dare nulla per scontato e mantenerti sempre aperto ai cambiamenti utili. L’insieme di analogie e differenze ti permetteranno di scegliere consapevolmente cosa accettare e cosa rifiutare”

La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …

Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.






