Il viandante in farmacia

Il paziente Viandante

Nelle favole il Viandante parte alla ricerca di armi per combattere il drago e scopre se stesso, le sue capacità, si mette alla prova. Il Viandante è forse l’archetipo che ci è più familiare.

In tempi più recenti è Jack Kerouac a incarnare il prototipo del Viandante ed è l’intero movimento hippy o, successivamente, New Age, a ricordarci l’importanza del viaggio.

Se il Martire identificava la vita come sofferenza e sacrificio, il Viandante la identifica come avventura.

L’Innocente, l’Orfano e il Martire cercano, con diverse modalità, di ottenere amore dalla situazione e dalle persone che li circondano.

Non il Viandante, che si ribella e sente la sua situazione e le persone a lui vicine come una gabbia da cui fuggire.

Il Viandante non teme la solitudine, spesso la cerca, anche perché in fondo forse si sente colpevole per aver infranto infinite regole non scritte, ma ben radicate.

Per il vero Viandante il viaggio non ha una meta, e il suo valore è nel viaggio di per sé.

Come il Martire, anche il Viandante può avere diversi stadi di consapevolezza, e non è raro trovare Viandanti che, più che viaggiare, fuggono.

Le caratteristiche principali del Viandante sono dunque la solitudine, il desiderio di autonomia che implica la ribellione, la fuga, la ricerca di alternative e di soluzioni. E il paziente Viandante esprime in pieno queste caratteristiche.


Non si fida di nessuno, o si fida di tutti, per periodi molto brevi. Il suo peggior timore è l’obbedienza alle regole perché lo farebbe tornare alla gabbia da cui, con tanta fatica, è fuggito.

Quando è in pieno nel ruolo, il paziente Viandante è un caso abbastanza particolare. La sua aderenza alla terapia è scarsissima, la sua compliance quasi nulla, eppure ha un empowerment elevatissimo, ma parziale. Si sente responsabile della sua lotta alla malattia, ma la vive in solitudine e con ribellione: deve essere lui a identificare la soluzione.

Più che da un ospedale all’altro, da uno specialista all’altro, il paziente Viandante viaggia su internet, viaggia da un terapeuta all’altro.

Il paziente Viandante prova tutte le possibili terapie o trattamenti, segue tutte le diete, percorre tutte le strade. Il problema è che vive tutto come un’alternativa.

Gestire un Viandante è una via di mezzo tra un gioco di prestigio e camminare su una corda a cinque metri di altezza.

È indispensabile mostrare la massima competenza: la non fiducia è il suo limite principale e bisogna evitare di dargli motivazioni che sostengano il suo scetticismo. Nello stesso tempo, però, si ribella a qualunque soluzione che non venga da lui stesso, quindi è indispensabile farlo partecipare alle decisioni.

Ad aggravare la situazione c’è il fatto che ha identificato la fuga come soluzione all’arrivo del drago: se la malattia è il drago, ogni terapia è una modalità per affrontarlo, ed è l’esatto contrario della fuga.

La gestione del paziente viandante in farmacia è relativamente semplice: raramente chiede consigli o informazioni. Chiede un prodotto, esibisce una ricetta, paga e se ne va.

Spesso è un cliente di passaggio, e se va sempre nella stessa farmacia lo fa per una questione di comodità più che di fiducia o relazione.


Le difficoltà si presentano se la farmacia fa parte di un progetto di servizi, di management del paziente cronico, o di una rete di farmacie oncologiche, impegnate nel supporto alla gestione dei pazienti.

Conquistare la fiducia del viandante è difficile, se non impossibile: meglio puntare sulla conquista del suo rispetto. È un paziente molto informato, che tempesta di domande, vuole capire, conoscere e, spesso, lo fa per identificare i punti deboli del protocollo terapeutico, dei farmaci che assume o di chi lo ha in cura.

Le leve di gestione sono il suo bisogno di autonomia e sul suo spirito di ribellione, molto più che la fiducia o il supporto emotivo.

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La definizione di “ relazione di aiuto ” nasce nel 1951 quando Carl Rogers nel 1951 specificò che si tratta di " una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato ”. Carl Rogers è il fondatore del counseling . C’è spesso confusione tra relazione educativa e relazione di aiuto ma la confusione, a mio avviso, nasce in buona parte dal fatto che chi molto di quanto è stato scritto per argomentare le due tipologie di relazione nasce in ambito universitario e didattico, interessandosi più degli aspetti istituzionali che del lato pratico. Certamente chi educa aiuta, e chi aiuta educa , ma se ci riferiamo ad un contesto ben preciso, come quello dell’attività professionale quotidiana di un farmacista, ci sono alcune differenze molto specifiche. Ma in sostanza, serve davvero al farmacista conoscere le differenze? Il farmacista, in termini di comunicazione, svolge diversi ruoli e necessita di estrema flessibilità per passare da un ruolo all’altro o, meglio, per mettere in campo ogni volta le specifiche competenze che sono più utili. Per far meglio il proprio lavoro, o per affaticarsi meno nel farlo, è dunque utile conoscere e familiarizzare con i concetti basilari e le tecniche proprie di uno o dell’altro ruolo. Mi spiego meglio. Il farmacista vende . Non salute, ma prodotti. Le tecniche di vendita gli servono dunque per vendere meglio e anche per acquistare meglio, o saper controbattere ai venditori che incontra. Il farmacista consiglia . Il farmacista supporta il paziente e il medico per ottenere la massima adesione alle terapie. Il farmacista ha un importante ruolo sociale per migliorare salute e qualità di vita della popolazione. Le cose si complicano. Le tecniche di vendita non servono più, e in realtà non servono nemmeno quando il farmacista vuole passare dal puro atto di vendita alla più redditizia fidelizzazione del cliente. Ipotizziamo tre diverse situazioni, molto comuni nell’attività quotidiana. Il cliente presenta una prescrizione medica un po’ complessa e chiede aiuto per meglio comprendere e ricordare la posologia e la durata della terapia. In questo caso è ottimale far ricorso a tecniche di coaching , strumenti finalizzati al raggiungimento di uno specifico obiettivo. Il cliente ha un problema, non sa che fare, vuole suggerimenti e consigli, non sa neanche se andare dal medico o no. È preoccupato, ma confuso. È la classica situazione della relazione di aiuto. Il cliente ha un problema di salute. È sotto controllo medico, ma ha letto su qualche sito un po’ di tutto, sa che deve modificare il suo stile di vita o la sua alimentazione. Qui il farmacista passa al ruolo di educatore sanitario : chiarisce i dubbi, elimina le sciocchezze, fornisce suggerimenti. Ma quali sono le tecniche, le regole del gioco nei diversi ruoli? Un po’ di pazienza …
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Analizzando le problematiche della relazione medico-paziente oggi, ho ritrovato questo articolo scritto circa 5 anni fa. MOLTO è cambiato in questi anni, e quasi non ce ne siamo resi conto o, meglio, non ne sono consapevoli molti di quelli che dovrebbero gestire il problema. Comincio quindi ripubblicando questo articolo, a cui seguiranno le considerazioni più aggiornate. Un tempo, tanti anni fa, il medico di famiglia era il depositario delle conoscenze sulla salute dell’intera famiglia. Ed era anche, a parte i casi in cui diventava necessaria l’ospedalizzazione, l’unico medico con cui si aveva a che fare per la maggior parte dei problemi di salute. Raccontarlo oggi sembra di parlare di preistoria! Per essere pienamente corretta devo dire che si trovano ancora medici di famiglia, soprattutto nei piccoli paesi: in città è molto più difficile. Poi, per decenni, ci siamo rivolti agli specialisti e la fiducia del paziente si è trasferita nelle medicine e nella tecnologia diagnostica più ancora che nella figura del medico. Oggi sembra che siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, che riguarda anche (o forse soprattutto) il medico di famiglia. Non si tratta di una rivoluzione tecnologica: è in gioco anche quella, ma riguarda più il sistema sanitario che il rapporto medico – paziente. Ciò che sta cambiando è più complesso, più profondo e, soprattutto, sistemico. Gli attori sono le malattie, soprattutto quelle gravi (le percentuali di incremento di alcune forme si tumore sono impressionanti, ma altrettanto vale per le guarigioni da molte forme di cancro), le nuove scoperte sulla psiconeuroimmunoematologia, internet, il paziente e i medici: siamo tutti coinvolti. In questi cambiamenti il sistema sanitario è un attore marginale e, soprattutto ora, è un elemento di burocrazia e di controllo economico, spesso nemico del benessere, spesso in ritardo, spesso fonte di complicazioni. Sono stati spesi fiumi di inchiostro per esaminare, condannare o esaltare il web come fonte di informazioni sulla salute. Qualunque malattia, o terapia, venga digitata, si trovano in pochi secondi migliaia di fonti di informazione, milioni di notizie, vere, verosimili, false, spesso in contrasto tra loro. Così il web come fonte di informazioni, come sostituto del medico di famiglia, si sta autodistruggendo. Quello strano elemento, che per anni è stato identificato come nemico dalla classe medica, è pronto per autodistruggersi. Già, perché quando il problema di salute è serio, la situazione è grave, si desiderano notizie certe: serve un punto di riferimento “sicuro”. Ovvio, a fronte di una diagnosi di tumore è l’oncologo il riferimento primario. Ma non basta. Serve una persona di famiglia, in cui si ha piena fiducia, a cui rivolgersi in ogni momento, a cui poter chiedere le cose più disparate: qualcuno che tenga i fili della complessità tra diagnosi, terapia, esami, effetti indesiderati, cambiamento di stile di vita, alimentazione, integratori, paure, ansie, dubbi. Solo il medico di famiglia può essere quel giocoliere competente, ma non tecnico super esperto, che può aiutarci nel giorno per giorno. Quindi cerchiamo nuovamente quel medico saggio, disponibile, competente, attento, dotato di estremo buon senso, capace di parlarci nel modo giusto al momento giusto. Io ne conosco alcuni: so che ci sono. Non possono essere sostituiti da nessun motore di ricerca. Sono impagabili, e fanno la differenza. Questo articolo è stato scritto un paio di anni fa. Rivedendolo oggi, sorrido e rabbrividisco. Sì, perché se c'è una cosa, in mezzo a milioni di incertezze, che la pandemia mi ha confermato con assoluta certezza è che il medico di famiglia, quello vero, forse un po' obsoleto secondo alcuni, fa davvero la differenza, in meglio.
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