Attenti al ghetto!
Esiste una forma di verbalizzazione che personalmente definisco ghettizzazione.

Tranquilli, non sto facendo riferimento a questioni sociali, sociologiche, politiche o razziali, ma ad una modalità di verbalizzazione che personalmente identifico come ghettizzazione. È una modalità che riscontro sempre più frequentemente e che mi ha fatto molto riflettere, al punto di voler condividere le mie elucubrazioni.
Si comincia in tenera età, spesso da parte di genitori o insegnanti.
- Sei davvero bravo a leggere e scrivere, eppure la matematica non è proprio la tua materia.
- Ha preso tante caratteristiche dalla famiglia di mamma, peccato che in quella famiglia abbiano tutti delle brutte gambe.
- Mi piace molto come disegni, però lascia stare lo sport.
Si continua da grandi, e accantoniamo l’età dell’adolescenza in cui eravamo tutti ipersensibili.
- Come medico sei davvero eccezionale: dedicati a quello.
- Quando si tratta di fare la grafica di una presentazione sei imbattibile. Ora lascia che ti aiuti per i contenuti.
- Dammi qualche consiglio di cucina: tu cucini splendidamente. In cambio ti posso aiutare e mettere in ordine l’armadio.
Avete capito il meccanismo?
Si comincia facendo un apparente complimento, che magari è anche, ameno in parte, un sincero riconoscimento, e si continua evidenziando limiti, difetti e carenze.
Ho sentito, e subito, talmente tante volte frasi di questo tipo da essere allenata ad identificarle. Lo step successivo è stato, quando ero coinvolta per motivi professionali o chiamata a fare da arbitro in discussioni familiari, chiedere a chi riceveva questo tipo di considerazione come si sentiva. La risposta è stata univoca: penso che voglia farmi un complimento, e non capisco perché, invece, mi dà fastidio, mi intristisce, mi irrita.
Ecco: io capisco perché.
La realtà è quell’apparente complimento specifica che sei bravo in qualche piccola cosa, ma decisamente incapace in altre. Il riconoscere l’abilità diventa una sostanziale ghettizzazione e sottintende, più o meno velatamente, limiti invalicabili.
Certo, tutti sappiamo che ci sono cose in cui siamo più abili, ma a nessuno piace sentirsi dire che ci sono cose che non sappiamo proprio fare e che non possiamo nemmeno imparare.
Personalmente ho imparato, avendo avuto a mia disposizione non pochi anni di esperienza, che ci sono cose che so fare, sempre con spazio di miglioramento, cose che non so fare e non mi interessa apprendere. Tutto il resto, ed è la maggioranza delle cose, appartiene alla categoria del non so fare e posso imparare.
Da un punto di vista educativo (genitori, insegnanti o capi verso i dipendenti) la ghettizzazione è devastante: demotiva e toglie spazio e potenziale di miglioramento.
La forma peggiore, secondo me, è quella del “fai pure questo, visto che sei bravo, ma chiedi a me per tutto il resto” (sottinteso: in tante altre cose io sono meglio).
Purtroppo è la forma più usata, anche tra amici o colleghi.
La definisco la modalità peggiore perché oltre a far danno a chi la subisce evidenzia una sottile forma di sadismo che dimostra un’insicurezza da parte di chi la usa.
Sottintende infatti che i meriti siano riconosciuti malvolentieri e che ogni riconoscimento di un punto di forza necessiti una compensazione semplicemente perché la persona che parla è terrorizzata da una possibile inferiorità. Ma se i rapporti umani vengono basati su una scala di superiore / inferiore, la vita diventa una crudele lotta per la supremazia.
Un merito, una capacità superiore alla nostra, va riconosciuto, magari si può tentare di copiare o chiedere di insegnare, non compensato da un demerito o appiattito vantando una capacità superiore in un altro campo.
Ed è anche inutile, da un punto di vista educativo, offrire un aiuto vantando un proprio merito. Solo gli aiuti richiesti sono davvero utili.
Quindi … attenti al ghetto! E, qualunque sia il ghetto, abbattiamolo!

Non è, ovviamente, mia intenzione dare consigli su rimedi della nonna, antiche ricette o terapie alternative, ma solo riflettere, e farvi riflettere, su come rispondere al paziente che vi racconta di cure di supporto che, a lui, appaiono tanto efficaci. Le situazioni sono molteplici, e i rimedi sono infiniti. Si va dai consigli alimentari alle cure palliative, dai decotti alle sciarpe rosse: si usa di tutto e si sente di tutto. Talvolta sono i rimedi della nonna, altre volte sono antiche ricette lette su qualche rivista di salute, o consigli letti sul web o ricevuti da qualche amico. Siatene certi: la maggior parte dei vostri pazienti fa uso di qualche rimedio, integratore, elemento salutistico o alimento prodigioso, sia che ve lo racconti sia che stia in totale silenzio . Ci sono gli alimenti salutari, le medicine alternative, i rimedi tramandati in famiglia, le pubblicità … È chiaro che il medico dovrà valutare caso per caso, ma ci sono alcune raccomandazioni (dettate dal buon senso, oltre che dallo studio della comunicazione) che valgono sempre. Il primo consiglio è che è sempre meglio sapere tutto quello che il paziente assume o fa, soprattutto se siete il medico di famiglia che tiene le fila della sua storia clinica. Se contestate, sminuite, rifiutate o ridicolizzate ogni rimedio che i vostri pazienti ritengono efficaci ciò che otterrete non sarà l’eliminazione delle aggiunte, palliative o terapeutiche, ma solo e semplicemente il paziente smetterà di raccontarvi ciò che assume . Il secondo consiglio, strettamente correlato al primo, è che l’effetto placebo, nelle sue diverse forme, è un fattore fondamentale per la guarigione, di qualunque malattia. Visto che parliamo di rimedi della nonna citerò le parole di mia nonna, quando mi trovò (avevo circa un anno) a mangiare i chicchi d’uva raccolti da terra poiché non arrivavo ai filari: quel che non strozza, ingrassa. Quello che non fa male, va bene. Imparate quindi ad accettare quei rimedi che non fanno alcun danno, e accettateli di buon grado. Eliminate, invece, drasticamente ciò che è rischioso o, meglio ancora, sostituitelo con qualcosa che sia innocuo o davvero di supporto. Potrete così mantenere alto l’effetto placebo e, contemporaneamente, conservare la fiducia del vostro paziente e un alto livello di dialogo.

Dopo una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche e oltre 20 anni di carriera in aziende farmaceutiche multinazionali, e continuando ad aggiornarmi anche da quando faccio la libera professione, credevo si sapere molto sui placebo e sull’effetto placebo. Ma questo libro mi ha affascinato e fatto fare nuove scoperte fin dalle prime pagine. I suoi pregi sono moltissimi. I pregi pratici: è piccolo, leggero, economico. Può essere messo in borsa e letto ovunque. E anche queste piccole cose non sono da sottovalutare. È scritto benissimo. Si pone l’obiettivo di essere un testo divulgativo, e lo è davvero . Ricchissimo di cultura e di riferimenti storico – letterari – filosofici manca totalmente di pomposità o frasi contorte che spesso si trovano in questo tipo di libri. Qui c’è la cultura vera. Einstein diceva “ Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna ”, affermazione che condivido appieno perché chi sa davvero sa anche semplificare i concetti. Fabrizio Benedetti sa. Sa spiegare, sa affascinare. E il libro è anche affascinante per i contenuti, il rigore scientifico. È imperdibile per tutti coloro che lavorano in ambito salute, ed è utile per tutti.

Il titolo completo del libro è Intelligenza emotiva Cos’è e perché può renderci felici. Daniel Goleman è sicuramente il più autorevole esperto mondiale di intelligenza emotiva. Il libro viene talvolta dichiarato “fuori catalogo”, ma vi assicuro che si trova ancora, sia in libreria che per gli acquisti on line. Queste le notizie pratiche. E poi, che dire? È interessante, scritto bene, leggibilissimo. E, soprattutto, imperdibile per chiunque abbia interesse per le relazioni umane, per chi educa, collabora o guida altri esseri umani.